Un miracolo e salviamo la vita del padre di Yeri!

Ultima ora di una bellissima giornata ad accompagnare i bambini al villaggio, a rivedere le loro famiglie.

Il sole nel villaggio di B., sperduto nella savana infinita del Saloum, cominciava a calare, le ombre ad allungarsi e non avevamo più tanto tempo. “Diamo presto un saluto anche alle famiglie dei due talibés che sono rimasti a Dakar – mi dice Sylvestre, volontario di Janghi – sicuramente farà loro piacere”.

Era tutto il giorno che ci spostavamo, lui, Lala (un altra volontaria Janghi) ed io sulle piste sabbiose, da un villaggio all’altro, per incontrare le famiglie dei bambini talibés che a Dakar, grazie a Janghi, eravamo riusciti ad iscrivere a scuola cercando di dare loro una maggiore opportunità che quella offerta dal solo Daara, scuola coranica, alla quale i genitori li avevano destinati.

Janghi vuole sostenere tutti i diritti, anche ritrovi con gli affetti.

Sempre grazie a Janghi abbiamo anche cercato di migliorare le loro condizioni di vita estremamente difficili dipendenti totalmente da quanto riuscivano a raccogliere mendicando per le strade di Dakar. Il pagare loro il posto sul pullman per potere andare a casa con il responsabile del Daara (maestro religioso a cui sono affidati i bambini dalle famiglie) all’occasione della festa religiosa annuale, il Gamou e rivedere dopo anni di lontananza i loro genitori fa parte delle azioni di Janghi per sostenere i diritti elementari di questi bambini. E quest’anno anche noi di Janghi abbiamo voluto seguirli.
Ed eccoci dalla mamma di Mandao Ndao. Il suo bambino non era venuto quest’anno perchè il pullman era pieno e lui era venuto l’anno precedente.

Sua mamma ci accoglie con gioia e dopo aver chiacchierato un po ci accompagna a visitare il villaggio.
Ad un certo punto vedo per terra, ai bordi del sentiero sabbioso, un bambinetto di nemmeno due anni che giocava mezzo nudo da solo. Lo guardo e riconosco gli occhi e il sorriso di Yeli, un piccolo talibé, anche lui rimasto a Dakar. “Dev’essere il fratellino di Yeli”, chiedo alla nostra accompagnatrice. “Si – mi risponde lei – sua mamma pero non c’è, è partita da stamattina, ma possiamo andare a salutare la nonna”.

La nostra volontaria medico scopre che il padre di Yeri, molto sofferente, ha una grave infezione. Ma non ha mezzi per recarsi ad un centro di cure.

La nonna ci accoglie con un bel sorriso ma rapidamente comincia a dirci tutta la sua rabbia per l’assenza della mamma di Yeri, moglie di suo figlio. Allora la nostra accompagnatrice le chiede di portarci a salutare il papà di Yeli.
Lo troviamo solo, chiuso nella sua capanna, in fondo al villaggio. La nostra accompagnatrice riesce, non senza difficoltà  ad aprire la porta di lamiera.
Era accasciato su una sedia, con l’aria sofferente, una gamba gonfia e sollevata a cavallo del manico della sedia. Si scusa per non potersi alzare a salutarci.
Gli chiedo cos’ha, e mentre lui mi spiega che da 4 giorni non riesce né a muoversi né a dormire dal dolore, gli tocco il piede gonfissimo e caldo. Ha la febbre alta. Visto che sono una Volontaria Janghi medico, capisco che ha una grave infezione nata da una piccola ferita non curata. Gli chiedo perchè non è andato nella struttura sanitaria più vicina.
“Aspetto che mi passi – mi dice – la struttura sanitaria è lontana dal villaggio e non ho più niente per poter pagare trasporto e cure e anche se avessi qualcosa lo utilizzerei per dare da mangiare alla famiglia”.

Poi mette la testa fra le mani per nascondere il viso e guarda in basso: “Ci voleva anche questa malattia…. non so più che fare, non riesco neppure a dare il minimo ai miei figli, anche per l’ultimo non ho neppure i mezzi per fargli la circoncisione… finirà anche lui al Daara a Dakar…”

Dobbiamo fare qualcosa. 

Con Lala e Sylvestre decidiamo di dargli i soldi per il trasporto a Kaffrine – un’apporto Janghi che rientra nell’ambito dei progetti di sostegno alla salute. Potrà andare alla cittadina più vicina, dove c’è un ospedale e potrà sostenere medicazioni e prendere gli antibiotici. Gli spiego che la sua malattia è grave e deve assolutamente andare l’indomani mattina e tenere i soldi per curarsi.
Lo salutiamo e ci dirigiamo in silenzio verso la macchina.

Non eravamo affatto sereni. Sapevo benissimo che non era così che avremo risolto il problema. Passare ancora una notte con quel febbrone e quel dolore era duro e rischioso. Il trasporto era un altro grosso problema. Era un villaggio sperduto, lontano da qualsiasi altro centro abitato e non passavano mai automobili perché la strada sabbiosa era difficilmente praticabile. L’unico mezzo sarebbe stato un carretto di legno instabile e scomodissimo, tirato dal cavallo o più probabilmente da un asino che ci avrebbe messo un eternità ad arrivare in città.

Sapevo che l’unica cosa da fare era portarlo con noi in macchina. Ma era tardi, il sole era calato e prima di arrivare a Kaffrine sarebbe stato buio e ho difficoltà a guidare al buio. Inoltre dopo non sarei riuscita a ritrovare il villaggio dove alloggiavamo perchè era molto lontano da Kaffrine, sempre su piste di sabbia.
Non sapevo che fare e mi sentivo sempre peggio.
Apro le portiere della macchina per fare entrare Lala e Sylvestre ma rimango li in piedi a guardare verso la capanna del papà di Yeli pochi metri più indietro, alla fine del villaggio dove comincia la savana con i grandi baobab.
La coscienza non mi lasciava in pace e continuavo a chiedermi cosa fare.

Ma nei villaggi del Senegal, i miracoli esistono ancora!

Ed ecco che improvvisamente ho una visione…… a sinistra dopo quell’ultima povera capanna, da dietro il grande baobab dove non si vede neppure la traccia di un sentiero di sabbia, uscita dal nulla cosa vedo?
Un ambulanza tutta bianca con su scritto Distretto Sanitario di Kaffrine che avanza lentamente verso di noi. Mi stropiccio gli occhi. Il sole e i rimorsi devono avermi fatto uno brutto scherzo perché ora ho le visioni… Ma visioni o no mi piazzo davanti per fermarla.

Si è fermata e un signore scende. Non è una visione. E’ vera.
Tiro fuori la mia carta di medico, gliela mostro e dico che c’è un malato grave che ha bisogno di essere portato in ospedale.
Il signore dell’ambulanza mi dice di chiamarlo e di fare presto perché stanno portando un altro malato grave all’ospedale di Kaffrine.
La nostra accompagnatrice è corsa a prendere il papà di Yeri. Lo sorregge anche la nonna, sua madre che partirà con lui.

Tutto il villaggio accorre. Non avevano mai visto un ambulanza passare da lì.

Lo sdraiano sul lettino. Chiudono le porte e l’ambulanza attraversa il villaggio per sparire dall’altra parte.
Io rimango a bocca aperta a guardare la visione che si allontana…..
E’ la prima volta che un ambulanza passa da quel villaggio ed è passata proprio quel giorno, quel preciso momento, in quel preciso luogo, accanto alla capanna del padre di Yeri e accanto alla macchina dove ero in piedi a cercare di gestire la mia coscienza.

Ho capito che è un miracolo. Un miracolo legato all’energia meravigliosa che c’è ancora in certi villaggi sperduti della savana africana, dove la gente vive con la natura e la spiritualità.
Avevo passato tutta la notte prima alla cerimonia religiosa del Gamou, in mezzo a canti religiosi, preghiere, benedizioni e persone in transe. C’ero andata per fare piacere e rispondere all’invito del responsabile del Daara perchè ha dimostrato una grande fiducia nei nostri progetti mandando tutti i talibé che lo desiderano alla Scuola di Enfance et Paix.
Avevo passato tutta la giornata fra baobab, capanne e gente che malgrado le difficoltà sapeva mantenere la dignità e la speranza.
Non sono religiosa ma l’energia che si sente in questi posti ti fa capire perchè qui i miracoli sono ancora possibili.

 

Articolo scritto dalla nostra Volontaria Socio Onorario Maria Laura Mastrogiacomo Mbow, Italiana medico che opera in Senegal da più di 40 anni.